PERCHE' MI CERCATE?

  Eppure in queste due righe io credo che ci sia una chiave di lettura che noi genitori abbiamo perso completamente di vista. E' una chiave di lettura scomoda, perché in qualche modo ci conferma le sensazioni negative che viviamo nell'osservarci in rapporto ai nostri figli adolescenti (l'incapacità di capire, l'esclusione, l'impotenza, l'estraneità...); però allo stesso tempo ci apre una possibilità di interpretare ciò che sta succedendo a nostro figlio ed a noi stessi. Cerco di andare un po' più a fondo. Ho preso queste due righe dal Vangelo di Luca, al capitolo 2; in questo racconto Gesù ha dodici anni, i genitori lo cercano da ben tre giorni. Sono preoccupati, affannati, chiedono a tutti, cercano. Possiamo immaginare lo stato d'animo di due genitori che non trovano più il figlio. Quando lo trovano, sicuramente arrabbiati ma anche molto rasserenati nel vederlo vivo e in salute, si avvicinano; lui molto candidamente risponde loro proprio con questa frase: "Perché mi cercate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?" Loro non capiscono questa risposta. Io trovo sconvolgente ed allo stesso tempo fantastico come questo episodio somigli a tutte le sfuriate e litigate che caratterizzano il rapporto fra adolescenti e genitori. Quante volte ci siamo ritrovate a urlare, sbraitare, ripetere fino all'impossibile cose per noi fondamentali, chiarissime, importantissime, con la voce rauca, la gola che ci brucia, le tempie infiammate, i nervi a fior di pelle.... per sentirci rispondere: "Be'... e che sarà mai?" oppure tornano tardi, sono irraggiungibili, siamo preoccupatissime al limite abbiamo già avvisato i carabinieri e loro:"E perché me stai a cerca'?" E restiamo di sasso, non capiamo. A guardar bene quella frase "Non sapete che devo occuparmi delle cose del Padre mio" si potrebbe parafrasare così: "non sapete che devo pensare a me, alle mie cose, ai miei progetti, al mio futuro, alla realizzazione di me stesso? Insomma "Non sapete che devo pensare alla mia felicità?" A dodici- quindici anni, biologicamente un ragazzo e una ragazza sono pronti a vivere la propria vita, sono totalmente autonomi. Vivere con i genitori, vivere da dipendenti, vivere senza ancora poter costruire il proprio mondo è una distorsione sociale che si è costruita nei secoli e che rende davvero recalcitranti (oppure, per reazione opposta, apatici ed inermi). A dodici, quindici anni un ragazzo e una ragazza sono in grado di lavorare, viaggiare, costruire, pensare teoricamente, progettare concretamente, sono in grado di procreare (e forse, per reazione opposta, non fanno assolutamente nulla). La cultura ci ha trasformati e costringe l'adolescente – con tutta la sua energia creatrice e distruttrice – a star dentro le logiche dei genitori. E quando esce di casa anziché convogliare questa energia nella ricerca delle proprie mete, la deve convogliare e contenere nelle logiche di altri adulti che siano essi di riferimento o che siano estranei. I ragazzi e le ragazze hanno bisogno di scoprire loro stessi, hanno bisogno di andare, di camminare, di cercare, hanno bisogno di inventarsi con la propria testa, hanno bisogno di dire "Io sono". E per poter dire "io sono" occorre che si costruiscano una propria immagine, un proprio percorso, un proprio mondo vitale, del quale i creatori sono loro, perché sono loro (o meglio vorrebbero essere loro) i creatori della propria felicità. Cercare "Il Padre mio" vuol dire cercare chi sono, cercare qual è la mia strada, cercare qual è il mio progetto per il futuro e per la mia felicità. E noi genitori paradossalmente ci troviamo a giocare il ruolo di chi frena, di chi ritarda, di chi reprime questo slancio: perché davvero è presto, perché non hanno ancora l'età, perché ci sono tanti pericoli. In buona fede ci affanniamo per fornire loro tutti gli strumenti di cui hanno bisogno in questa ricerca. Ed è giusto che lo facciamo, perché esistiamo per aiutarli, perché ne abbiamo la responsabilità e il desiderio. Ma ai loro occhi, o meglio alla loro emotività, appariamo come intralcio, come un peso, come un bastone fra le ruote ogni volta che hanno voglia di partire. Qual è allora il nostro ruolo? Come possiamo fare per non allontanarci troppo, per non girare a cercarli inutilmente, con l'ansia e la paura di averli persi? Ecco, qui secondo me entra in gioco il "turista delicato, curioso, discreto". Delicato perché passa nella vita degli altri senza violarla, senza infrangerla: i nostri figli non sono "noi" e non sono neanche "nostri", siamo di passaggio nella loro vita, sarà ovviamente un passaggio incisivo e fondamentale ma non siamo la loro vita. Curioso perché la curiosità è la forma di intelligenza che più di ogni altra permette la conoscenza e l'incontro soprattutto col nuovo. La curiosità è l'opposto della presunzione: è disordinata, è allegra, la curiosità è umile perché sa di non sapere quindi cerca, osserva, aspetta, si stupisce, si meraviglia, ascolta, ringrazia. Noi adulti invece partiamo dal presupposto che conosciamo i nostri figli meglio di chiunque altro, ci chiudiamo alla possibilità di guardarli cono occhi nuovi; ci siamo fatti un'idea precisa di loro, in tanti anni, siamo sicuri.di sapere. E non accettiamo che altri adulti o addirittura dei ragazzini di tredici anni ci possano insegnare molto sui nostri figli. Discreto perché la discrezione è quella dote che ci permette di chiedere permesso anche quando siamo certi di essere nel giusto, la discrezione promuove la libertà. Invece noi genitori ed adulti siamo invadenti, scaraventiamo le nostre leggi e le nostre sfere di valore nell'esistenza dei nostri figli. Certo è ovvio che dobbiamo avere dei riferimenti per crescerli, educarli, sono anche il segno del nostro amore per loro; solo che poi ci stupiamo, ci offendiamo, ci sentiamo traditi ogni volta che loro non condividono o semplicemente mettono in discussione i nostri punti fermi. Forse questo sconosciuto che gira per casa un po' lo abbiamo costruito, non solo con le nostre mani, ma con un processo di evoluzione che ha trasformato troppo i naturali percorsi di crescita e che ora ci vede a dover affrontare situazioni che in un certo senso sono "contro natura", alle quali non siamo preparati. Forse potremmo educarci noi genitori, lentamente, ogni giorno, a guardare ciò che cambia nei nostri figli, fin dai primi anni di vita; giocare ad immaginare ciò che potrebbero diventare, non desiderare che diventino assolutamente nulla per essere capaci di accogliere qualsiasi scelta come un progresso, un dono, come una sorpresa. Ecco, credo che qualche volta ci corrodiamo perché cerchiamo nei nostri figli l'immagine che noi vorremmo trovare. E questo ci annebbia la vista e non ci permette di guardare con lucidità ciò che sono realmente. Forse quando arrivano in adolescenza si accorgono di questo e si sentono un po' meno amati, perché si sentono o vogliono essere diversi da come noi li vogliamo.

Ritratto di Natalia Forte

Posted by Natalia Forte

In cammino, a piedi nudi: fra terra e cielo, fra realtà e immaginazione, fra presente e sogno, fra necessità e desiderio, fra regole e ideali, fra attualità e realizzazione, fra cervello ed emozioni... Dove stanno questi ragazzi quando parliamo con loro? Dove stanno con la testa? Sicuramente lontani dai piedi, sicuramente altrove, laddove noi non possiamo arrivare, dove loro non ci vogliono portare.

Perché il loro mondo può essere solo ciò che stanno respirando in questo momento. E nessun altro lo deve capire... altrimenti non sarebbe più il loro mondo.