Oggi parliamo di flessibilità lavorativa. Nonostante le giornate del lavoro agile (qui e qui) e i disegni di legge (qui), per promuovere e diffondere nuove pratiche di conciliazione tra lavoro e vita privata, la resistenze al cambiamento sono notevoli. Resistenze culturali da parte dei manager, ma anche le difficoltà connesse a una copertura assicurativa e alle norme sulla sicurezza.
Una certa cultura aziendale, tuttora viva e vegeta, misura la produttività e il valore del lavoro sulla base del numero di ore che un dipendente passa seduto alla propria scrivania. Questa visione distorta che misura l'impegno in base a questa permanenza premia le persone per la loro disponibilità a sacrificare tempo ed energie dalle loro vite personali nel perseguimento della "causa aziendale". Vengono premiati atteggiamenti che non prevedono un raziocinio personale del dipendente e nemmeno la razionalità di una politica del personale.
In un recente articolo del Guardian, si parla proprio di questo e di come la flessibilità sia in realtà un mito.
“La dura verità è che la flessibilità sul posto di lavoro rimane un mito altruistico. Qualcosa che noi "dobbiamo fare" in contrapposizione a qualcosa che "dovremmo fare".
“Il pericolo è che tra le mura aziendali le richieste di flessibilità possano essere utilizzate come un bastone invisibile per colpire coloro che non sono così “devoti” come gli altri.”
Le pressioni dopo lunghi periodi trascorsi lavorando in modo totalmente flessibile, senza orari, senza limiti, a un certo punto possono diventare insostenibili. Arriva un momento in cui ti chiedi il senso di quel sacrificio, di una dedizione totale, che mette tutto il resto in secondo piano. Arriva quel momento in cui quei ritmi ti soffocano e decidi di dare un taglio, di dare spazio ad altro. Tante le storie di donne che hanno scelto di spezzare queste abitudini, soprattutto quando ti accorgi che il mantra “non importa la quantità ma la qualità del tempo” è stato costruito proprio da quella mentalità aziendale che ti chiede flessibilità senza sosta.
E non è vero che basta tornare a casa per la storia della buona notte, perché passare del tempo con i figli, portandosi dietro un perenne senso di colpa dei momenti perduti, non è il massimo. Non so se vi è mai capitato di avere addosso gli sguardi dei colleghi che restano in ufficio fino a tardi, mentre tu ti “ammutini” e torni a casa dai tuoi cari. In quel momento esatto la tua carriera è segnata, così pure i premi produzione, non importa quanto produci concretamente, se non resti a scaldare la poltrona in ufficio, sei OUT!
Perché si può avere un'ottima cultura aziendale sulla carta, con progetti di sostenibilità aziendale, ma se poi nei fatti ti sbattono la porta in faccia e vieni costretta alle dimissioni solo per aver chiesto un part time, è solo uno specchietto per le allodole, un'operazione di marketing di facciata. Eppure in Svezia si va verso sperimentazioni di orari di lavoro sotto le 8 ore (6 ore) con risultati notevoli in termini di produttività, motivazione, creatività e fedeltà al lavoro.
Questo sul fronte del lavoro. Purtroppo parte dello stress che le donne avvertono deriva dal fatto che quando tornano a casa sono ancora loro a compiere la maggior parte del lavoro domestico e di assistenza/cura. Perché solo in poche si possono permettere colf e tate, ricordiamolo. Se non avremo il coraggio di riequilibrare queste competenze, redistribuendole, non faremo grandi progressi, permarrà la donna multitasking su cui pesa un macigno di stress multitasking. Sulle conseguenze della “doppia presenza” ne avevo già parlato qui http://www.mammeonline.net/content/le-donne-doppia-presenza
Riprendo un ragionamento di Cristina Borderías:
“Produzione e riproduzione esigono dalle donne logiche di azione e accettazione di valori radicalmente contrapposti. Abbiamo due culture del lavoro, l’ambivalenza esprime la difficoltà di rispondere e di identificarsi con queste logiche contraddittorie; il sentimento di scissione della propria vita, la difficoltà di pensarsi solo in una delle due sfere, il rifiuto della dicotomia tra il familiare e il professionale e della subordinazione di una sfera all’altra. L’ambivalenza con cui le donne vivono queste dicotomie si manifesta come una reazione contro la mistica maschile della produzione che pretende di fare del lavoro il centro della vita e contro la mistica tradizionale della femminilità che pretende di ridurre la propria vita a quella degli altri e cancellare la propria autonomia. Ma proprio i passaggi continui da una sfera all’altra, da una logica all’altra, da una cultura all’altra, ciò che paradossalmente colloca le donne come soggetti capaci di concepire la globalità di una vita sociale.”
(Cristina Borderías, ‘Evolucion de la division sexual del trabajo. Barcelona 1924-1980‘, PhD thesis (Barcelona, 1984)
Per quale ragione si deve considerare positivo e vincente un modello che prevede una supremazia della vita professionale su quella personale? Perché chi ha il coraggio di sovvertire questa idea, mettendo al primo posto altri aspetti che esulano l'ambito lavorarivo (figli, passioni, salute, familiari anziani o malati) deve essere messi da parte, considerati pericolosi elementi di sovversione dell'ordine aziendale?
La flessibilità non deve essere una formula di schiavismo/deregulation mascherati, altrimenti ci stiamo prendendo e ci stanno prendendo in giro.
Siccome una migliore qualità del lavoro si traduce in un maggiore benessere per le persone, forse è necessario tracciare un bilancio proprio su questo. A dicembre 2015 era stato pubblicato il Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) a cura dell'Istat, riferito ai dati del 2014 http://www.istat.it/it/archivio/175169 . Si tratta di un quadro integrato dei principali fenomeni sociali, economici e ambientali che caratterizzano il nostro Paese, che parte dal presupposto della multidimensionalità del benessere e analizza 130 indicatori (su varie macrotematiche: salute, istruzione, lavoro, conciliazione, sicurezza, paesaggio, ambiente, qualità dei servizi, politica e istituzioni). Al suo interno troviamo anche una rilevazione che tratta di “Lavoro e conciliazione dei tempi di vita”.
In un contesto in cui riprende l'occupazione, ma sempre a ritmi più bassi rispetto alla media europea, troviamo la nota positiva della diminuzione delle differenze tra i tassi di occupazione delle donne con figli e senza figli, anche se, soprattutto per quante hanno basso titolo di studio e per le straniere, i problemi di conciliazione restano molto forti. Anche a causa della riduzione dei servizi comunali per la prima infanzia.
Ma vediamo nel dettaglio cosa ci dice il report:
“Il rapporto tra il tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con figli in età prescolare e il tasso di quelle senza figli è molto basso benchè in miglioramento di 2,1 punti nell’ultimo anno. Nel 2014, su 100 occupate senza figli le madri lavoratrici con bambini piccoli sono solamente 77. Al crescere del livello d’istruzione le differenze nella partecipazione al mercato del lavoro tra le donne con o senza figli tendono a ridursi: il rapporto tra i due tassi varia, infatti, dal 56,8% per le donne con al massimo la licenza media al 94,5% per le laureate.
Si conferma per le donne straniere la maggiore difficoltà a conciliare il lavoro e la cura dei figli in quanto possono fare meno affidamento sul supporto delle reti di parentela. Difatti, il rapporto tra il tasso di occupazione delle madri con figli piccoli e quello delle donne senza figli è solo il 51,3% (contro l’82% per le italiane). Malgrado i segnali favorevoli della congiuntura economica, la qualità del lavoro continua a peggiorare soprattutto in termini di lavoro non adeguato al titolo di studio e di part time involontario.”
Sale il tasso di occupazione delle donne, ma il divario di genere in Italia resta superiore al 19%: per colmarlo dovrebbero lavorare almeno 3 milioni e mezzo di donne in più rispetto a quante oggi lavorano.
Sale il gap riguardo al tasso di mancata partecipazione: oltre il 27% delle donne che vogliono lavorare non ci riesce, contro il 19,3% degli uomini: il divario è 5 volte superiore a quello europeo (8 punti contro 1,6).
Le differenze di genere restano forti, anche in relazione agli indicatori di qualità del lavoro: le donne sono più spesso occupate nel terziario e in professioni a bassa specializzazione (in particolare le straniere). La quota di occupati in part time involontario è in crescita: per le donne è più del triplo di quello degli uomini (rispettivamente 19,2% e 6,2%).
“La componente femminile continua ad essere svantaggiata anche sul piano della valorizzazione del capitale umano (il 24,8% delle donne è sovraistruito contro il 21,7% degli uomini).
L’unico indicatore a non mostrare variazioni è la bassa retribuzione per il quale il gap di genere, in calo nel 2013, rimane stabile nel 2014 a 3,3 punti (12,3% le donne 9% gli uomini).”
Attraverso gli indicatori numerici questa indagine cerca di fornirci una fotografia dello stato del benessere degli italiani e delle italiane. Per comprendere nella realtà il livello di benessere vissuto dalle donne, forse bisognerebbe mettere insieme nel calmiere altri indicatori che rilevino le ricadute di certe condizioni di lavoro, di certi orari/tempi di lavoro che non vengono tracciati dalle statistiche, di certi atteggiamenti e comportamenti di alcune dirigenze aziendali, di certe discriminazioni palesi o impalpabili. Quel vortice che è incompatibile con il benessere umano. Dovremmo accorgerci che pur essendo più istruite, più alfabetizzate e disponibili a una formazione permanente, siamo ancora indietro per competenze numeriche e informatiche (con un gap di 13 punti) soffrendo il fenomeno della segregazione negli studi. E non bastano articoli sponsorizzati come questo http://d.repubblica.it/native/attualita/2016/01/13/news/donne_e_tecnologia_presenza_in_crescita_ma_ancora_non_basta-2926769/ a farci credere che la situazione stia migliorando e che sulle donne c'è la giusta attenzione e un equa fiducia e investimento.
Tutto questo impegno non si traduce più in risultati tangibili o automatici, l'ascensore sociale è fermo da un pezzo. In questo Paese che fatica a parlare e a occuparsi di divari, di discriminazioni, di donne che hanno potere, possibilità di scelta e autonomia affievolite, sarebbe un bel segnale incominciare a rendere visibili le loro storie, lavorando non solo per consentire alle donne di raggiungere i livelli apicali o istituzionali, ma più semplicemente di avere una esistenza dignitosa, perché lo stress di precarietà e di un futuro incerto è sopravvivenza. Il benessere non può essere un privilegio di pochi, ma deve essere diffuso, accessibile a tutt*. Perché la stragrande maggioranza non ha condizioni semplici e agiate di vita. Scoperchiamo anche certe cattive abitudini. Provate a mettervi nei panni di tutte quelle donne, spesso sfruttate e sottopagate, a cui altre donne più fortunate in virtù del loro potere economico e sociale delegano il lavoro di cura e domestico. Provate ad avere un disagio economico, a vivere in una permanente difficoltà e incertezza. Pensate ai diversi gradienti di scelta e di benessere. E non venitemi a raccontare che la situazione di tutte le donne è più o meno la stessa, o come ho sentito dire di recente da una donna “le difficoltà di uomini e donne nel mondo del lavoro ormai si equiparano”.
Se vi interessa approfondire il tema del lavoro di cura e domestico, ho pubblicato recentemente questo articolo https://simonasforza.wordpress.com/2016/01/15/autonomia-redistribuzione-parita-di-genere/.