Secoli e secoli di storia e di evoluzione ci hanno portato assai lontano rispetto alle nostre origini, modificando profondamente tutti gli ambiti della nostra vita. L’uomo del terzo millennio ha ben poco in comune, almeno per alcuni versi, con l’uomo ottocentesco, medievale, o addirittura preistorico.
La modernità ci ha portato ovvi e profondi progressi nella vita di tutti i giorni, permettendo di rendere la nostra esistenza più comoda, confortevole, sicura, o ce ne ha almeno regalato l’illusione. Tutta questa modernità ci ha però fatto dimenticare da dove veniamo: siamo e sempre rimarremo animali.
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E il parto è uno di quei momenti fondamentali della vita in cui ciò si mostra in tutta la sua forza.
Da sempre la donna partorisce secondo modalità che la magia del corpo umano racchiude in sé e i cui meccanismi a tutt’oggi non sono del tutto chiari. Non sappiamo per esempio perché il bambino decida di nascere in quel preciso momento. E forse è giusto che sia così, che ancora un alone di mistero rimanga su questo evento oggi troppo medicalizzato e analizzato al microscopio, con l’illusione di poterlo controllare e renderlo pratica medica standardizzata come tante altre.
Il vissuto del parto ha cambiato profondamente il suo volto negli ultimi sessant’anni. Da evento prettamente intimo, che si svolgeva in casa, in famiglia, è diventato pratica ospedaliera ed in questo passaggio, se ha guadagnato in sicurezza da un punto di vista medico, ha perso tuttavia tanto della sua naturalità. La donna è diventata paziente seguito e monitorato, il luogo della nascita è passato dalla camera da letto di casa alla sala parto ospedaliera, negli anni 50-80 fredda e inospitale, oggi spesso più intima, ma pur sempre reparto di ospedale, da sempre sinonimo di malattia.
Accanto a questa perdita di naturalità, il progresso ci ha anche fatto dimenticare che il nostro essere animali implica una serie di comportamenti istintuali che ci guidano nei momenti importanti della vita. La gravidanza e soprattutto la genitorialità ne sono due esempi. L’istinto materno non è solo una parola di cui troppo spesso si abusa, è anche una realtà che, nonostante millenni di evoluzione della specie, guida la donna nelle pratiche di accudimento dei piccoli. Lo stesso dicasi per la gravidanza ed il parto.
Tuttavia, molto oggi abbiamo perso dell’antica capacità di lettura dei messaggi del corpo. Tante ad esempio sono le donne che vivono i cambiamenti della gravidanza e l’attesa del momento del parto come qualcosa di estraneo, di incomprensibile, e come tale ansiogeno. La paura del parto dice molto della nostra società, del nostro non accettare il dolore (l’unico dolore positivo, non patologico) come passaggio, come messaggio del corpo che guida la donna nelle fasi della nascita di suo figlio, e la diffusione sempre maggiore dell’anestesia epidurale ne è un esempio.
Questa perdita di contatto con le radici più profondamente istintive che ci sono in noi ha fatto sì che il parto, uno dei momenti più “naturali” della vita di una donna, si sia colorato di tinte fosche. E’ diventato qualcosa di sconosciuto, di temuto; libri, opuscoli, siti internet, pareri di specialisti e non, hanno cercato e ancora cercano di dare una risposta razionale a qualcosa che è, e rimane, invece profondamente viscerale.
Il senso di controllo che un’impeccabile assistenza ostetrico-ginecologica può fornire è in fondo un’illusione. Dietro a questo bisogno di risposte tecniche non si cela solo il legittimo desiderio di un parto sicuro e di un bimbo sano, ma a mio parere vi risiede anche la profonda paura della donna di fronte a qualcosa di ormai sconosciuto, lontano da sé, tutt’altro che naturale.
La donna si sente protetta e rassicurata dalla presenza di professionisti di lunga esperienza e di comprovata preparazione, ma non solo: tende spesso a delegare loro qualcosa che in realtà è assolutamente indelegabile.
Solo lei potrà far nascere il suo bambino, che verrà al mondo indipendentemente dalla presenza o meno di professionisti dell’ostetricia e della ginecologia. Una verità banale, semplice, ma troppe volte dimenticata dalla donna. Una competenza, quella di dare la vita, che sta scritta nel suo dna, nel suo corpo, dalla notte dei tempi, ma di cui oggi spesso non si sente più così naturalmente depositaria.
Ecco allora che il rivolgersi a corsi, libri, professionisti che le indichino come partorire le dà un fittizio senso di sicurezza. Come se qualcuno potesse insegnarle a fare qualcosa che la donna già sa fare, e non potrebbe non essere così.
Ci si dimentica che per secoli e secoli le madri hanno partorito senza ospedali, ecografi, monitoraggi.
Ci si dimentica che in noi risiedono saggezze e competenze innate in grado di guidarci nei momenti salienti del nostro percorso di vita.
Questa percezione di incompetenza nella donna di oggi non si limita però solo alla gravidanza e al momento del parto, ma si riscontra anche, e spesso soprattutto, nell’accudimento del bambino una volta nato. Molte sono le spiegazioni possibili; innanzitutto va considerata la profonda modificazione che la struttura della famiglia ha subìto negli ultimi 100 anni. Le famiglie sono sempre meno numerose e costituiscono sempre meno una rete di riferimento; inoltre, non è raro che una donna arrivi alla nascita di suo figlio non avendo avuto mai a che fare con un altro neonato, diversamente da quanto accadeva invece sessant’anni fa. Tutto questo fa sì che la neomamma si trovi ad affrontare l’accudimento di suo figlio senza aver avuto modo di fare altre esperienze prima, esperienze che la avrebbero aiutata a sentirsi più competente.
Ma non è solo questo. Anche la genitorialità e l’accudimento di un neonato si sono svestiti della loro naturalità a favore di informazioni tecniche, consigli di parenti e amici, riviste più o meno specializzate nel settore, professionisti della pediatria. Utilissimi se vissuti come spunti per farsi un bagaglio di conoscenze da adattare alla propria unica e irripetibile diade madre-bambino, inutili, o addirittura disorientanti, se presi come tecniche di accudimento, come se prendersi cura di un bambino si potesse imparare alla stregua di un corso di computer o di cucina.
I corsi di preparazione al parto sono una prima risposta ed una risorsa utile per aiutare la donna a riappropriarsi del senso vero di questa esperienza. Nati negli anni ’50 con lo scopo di aiutare le gestanti ad affrontare meglio il dolore del travaglio e del parto, con il passare del tempo si sono andati modificando ed ampliando nei contenuti e negli obiettivi.
Infatti, ridurre il corso ad una serie di lezioni sulle posizioni da assumere durante il travaglio e la fase espulsiva significherebbe negare tutto l’universo di vissuti emotivi della donna e del suo partner che accompagnano questa esperienza unica. Il corso quindi rappresenta oggi un luogo di incontro che permette alla donna non solo di acquisire le informazioni necessarie per capire ciò che accade in lei, ma anche di riconoscere ed esprimere ciò che sperimenta sul piano fisico ed emotivo durante la gravidanza, di parlare delle proprie difficoltà, desideri, paure, emozioni e fantasie.
L’obiettivo è oggi quello di incentivare l’empowerment delle donne, di restituire loro il senso di competenza e l’orgoglio in esso insito, di distrarle per un momento dal “fuori”, dalla valanga di informazioni che le travolge ogni giorno dal momento in cui hanno letto “positivo” sul test di gravidanza, per far loro volgere l’attenzione sul “dentro”, alla ricerca del senso di quello che sta loro accadendo e delle risorse per affrontarlo al meglio.
Tutto l’intervento è volto a invertire la rotta di una tendenza ormai sempre più dilagante negli ultimi sessant’anni, quella di delegare all’ ”esperto”, affrontando il parto e il diventare madre con un atteggiamento passivo, iscrivendosi ai corsi di preparazione alla nascita pensando di andare a imparare a partorire, come se il corpo già non sapesse farlo.
Articolo di Nora Massoli, Psicologa