Qualche giorno fa ho incontrato un mio caro vecchio amico che da pochi giorni è diventato padre. Era felice ed entusiasta, pieno di quell’energia unica di questi momenti della vita. Un vulcano di entusiasmo e di trepidazione, di passione e gioia, di sogni e prospettive. Una meraviglia.
Divenire genitore è un dono tra i più importanti che si possano ricevere, un regalo del destino che completa qualcosa che si credeva già perfetto e che invece era manchevole di una sua parte essenziale. Ero felice per lui come se lo fossi per una cosa capitata a me.
Lo ascoltavo raccontarmi con gli occhi lucidi e luminosi i particolari del parto, del primo incontro con suo figlio e delle ore trascorse da solo in presenza di quell’esserino meraviglioso.
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“Sai quando sono rimasto solo con mio figlio, tutto d’un tratto mi sono reso conto che non mi sentivo preparato, che quasi mi sentivo inadeguato di fronte alle mille esigenze che quel bambino in fasce mi avrebbe richiesto. Ero lì con lui e lo guardavo immobile.
Lui piangeva, faceva qualche smorfia o quant’altro ed io me ne stavo ebete ed immobile a fissarlo impossibilitato a fare qualsiasi cosa. Ero felice e allo stesso tempo impaurito.
Nonostante lo aspettassi da nove mesi, avessi fatto corsi prenascita e mille prove e tentatati di immaginarmelo, non riuscivo a far altro che pensare che lui era bellissimo e che io ero un “papà improvvisato”, un papà-neonato tanto quanto lui.
M’è venuto il panico dell’esordiente, la paura del principiante. Attimi terribili in un istante stupendo.
Il cuore andava a mille senza che io lo volessi e soprattutto senza comprendere se era per l’emozione o la fifa. Poi con calma, mi sono ripreso e mi sono detto che doveva andare così, che comunque saremmo cresciuti insieme risolvendo ogni possibile difficoltà.
Solo allora il mio cuore s’è un po’ acquietato ed ho capito che tutto sarebbe andato per il verso giusto e che iniziava una nuova vita per tutta la nostra famiglia…”
Nelle sue parole mi sono rivisto, mi sono immedesimato. In quei suoi stati d’animo mi sono ritrovato facendo un balzo all’indietro di qualche anno quando ho incontrato per la prima volta mia figlia. Nessuna sala parto e nemmeno ospedali, nessun neonato, ma la stessa attesa, inquietudine e turbamento misto ad emozione e sogno che si realizza. Un istituto, un corridoio ed una bimbetta bellissima con le mani nascoste dietro la schiena che mi fissa dubbiosa ed impaurita.
Cambiano i contesti ovviamente, ma non le percezioni e le suggestioni.
Anche io come il mio amico, nonostante mille giorni d’attesa, corsi e ri-corsi, incontri formativi, esami e prove da superare quando ho incontrato la mia meravigliosa bimba mi sono sentito un “papà improvvisato”.
Mi ero preparato ai miliardi di possibili problemi da incontrare (“risolvere” sarebbe una parola troppo grossa), credevo di essere un super-papà-iperperformante ed invece ho compreso nel volgere di pochi secondi che la mia vita ed il mio ruolo di padre sarebbe stato costruito di attimo in attimo insieme a mia figlia ed a mia moglie, che la nostra famiglia sarebbe cresciuta solamente crescendo insieme.
Col trascorrere del tempo mi sono sempre più convinto che sia molto, molto, molto giusto prepararsi al meglio per affrontare questa nuova avventura, ma che non bisogna vergognarsi mai di sentirsi inadeguati e spesso impreparati. Coscienti di non essere perfetti e di non poter calcolare le tante sfumature che il ruolo di genitore offre e richiede.
Provare a fare del proprio meglio consci che potrebbe non essere abbastanza, ma non per questo fallimentari.
Durante il cammino, che ha portato ogni genitore adottivo al fatidico incontro, ci sono tanti dubbi e tante prove superate più o meno faticosamente, c’è tanta voglia e tanta paura, c’è tanto desiderio di prepararsi e tanta necessità di essere compresi. Ci si sente pronti e allo stesso tempo impauriti.
Di contro, e qui mi si consenta una nota polemica, spesso al genitore adottivo si richiede una “preparazione” completa, un presa di coscienza matura e granitica, una sorta di perfezione consapevole.
Non me ne vogliano i soggetti preposti se dico che questa “perfezione consapevole” è una chimera, che nessuno può raggiungerla e che al massimo si più ambire alla consapevolezza di non essere mai definitivamente pronti, di essere un po’ impreparati ed inadeguati.
Noi genitori adottivi non abbiamo avuto solo nove mesi per attendere, bensì anni. Abbiamo avuto più tempo e forse qualche strumento in più per capire. Forse in un certo senso siamo dei privilegiati.
Qualcuno dice che la lunga attesa stimola alla comprensione di se stessi, a scandagliare ogni dubbio, a dare un volto alle nostre paure e perché no, a risolverle.
Io, ovviamente (lo dico per chi ha letto il mio libro e quindi sa come la penso), non sono dello stesso avviso. Sono cosciente che il tempo ha una sua valenza, ma non sempre aiuta a crescere… spesso aiuta a soffrire e nulla più.
Ma come dicevo, per molti “esperti” il tempo dell’attesa è sinonimo di crescita, propedeutico alla consapevolezza.
Per questo dovremmo essere più consapevoli e più pronti? Non lo so, non ho una risposta. Per me non lo è stato. Il tempo dell’assenza (come chiamo io la lontananza da mia figlia) non è stato che un soffio formativo rispetto ai mastodontici attimi costruttivi passati quando ci siamo incontrati.
Credo che la vita sia esperienza, prova continua. Ogni richiesta, domanda, bisogno di mia figlia è stato un mattoncino messo alla costruzione del mio ruolo di padre. Attenzione, sacrificio, dedizione e contatto sono valsi molto di più di testi illuminati (?), incontri formativi, dialoghi psicosociali, giorni dell’attesa.
Io credo che fare il padre sia una forma d’arte, un mestiere (mi si consenta il termine) che vanno appresi e conosciuti, ma soprattutto affinati, rielaborati, rivisti, riproposti, che si reinventino ogni giorno smussando angoli, correggendo profili, mettendo o togliendo ciò che è necessario.
Dubbi misti a certezze unite ad insicurezze e prospettive.
Attenzione! Non confusione, ma volontà di essere migliori.
Di fronte ai nostri bambini siamo (o dovremmo essere) tutti come quel mio vecchio amico: tremendamente felici e dannatamente consci dei nostri limiti.
Sentirsi inadeguati ed impreparati non vuol dire esserlo, semplicemente significa pensare che si possa diventare meglio di quello che si è, che si possa-debba crescere anche e soprattutto attraverso l’esperienza e l’incontro con il proprio figlio.
Crescere come padre insieme alla mia bimba aiutato da mia moglie, mi ha fatto capire quanto siamo perfettibili e quanto nonostante ci si impegni non saremo mai genitori modello. Dio ci scampi dai padri e dalle madri da manuale quelli citati sui libri (che spesso c’è toccato leggere) ed ipotizzati da alcuni soggetti incontrati.
Qualcuno diceva che la perfezione non è di questo mondo. Come dargli torto.
Anche oggi, che sono padre da quasi quattro anni, mi sento un genitore non sempre all’altezza, un uomo con molti dubbi e poche importanti certezze. Ma è proprio da questa mia consapevolezza, che posso ogni volta ripartire ed aiutare mia figlia e la mia famiglia a navigare, a volte con una rotta precisa a volte a caso, nel bellissimo ed a volte tempestoso mare che m’ha assegnato il destino.
Nota: Articolo di Fabio Selini, autore del libro "Il padre sospeso" - Casa Editrice Mammeonline