Penso che sia fondamentale fare una premessa per parlare di "rischio esclusione", cuore del lavoro presentato da WeWorld nel suo Indice annuale. Allarghiamo lo sguardo e cerchiamo di analizzare questo tema così come giustamente evidenzia il report di WeWorld:

"Una lettura superficiale delle due Convenzioni ONU che concernono le bambine/i, gli adolescenti e le donne - la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (CRC, 1989) e la Convenzione sull'Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW, 1979) - potrebbe condurre a vederle come distinte e inconciliabili. Le due Convenzioni sono invece complementari e interdipendenti: proteggere i diritti delle donne è importante in sé, ma lo è anche per bambine/i e garantire i diritti della popolazione under 18, specialmente delle bambine, è il primo passo per promuovere le pari opportunità tra uomini e donne (Unfpa e Unicef, 2010). Donne, bambine/i e adolescenti hanno maggiori probabilità di cadere in povertà rispetto agli uomini (One, 2015). Tra gli esseri umani, infatti, le donne e i bambini – e tra questi ultimi in misura maggiore le bambine – sono più a rischio di povertà e di violazioni dei diritti umani (Oakley, 1994). È per questo che ai bambini e alle donne sono riservati due specifici trattati per difenderne i diritti fondamentali. Se due specifici trattati erano dunque necessari, ciò ha però fatto sì che originariamente e fino a qualche anno fa dei diritti dei bambini e delle bambine, da un lato, e di quelli delle donne, dall’altro, si parlasse separatamente, come se il rispetto o la violazione dei diritti degli uni non avesse niente a che fare con il rispetto o la violazione dei diritti delle altre, e viceversa. Più recentemente i diritti delle donne e dei bambini e i due relativi trattati (la CRC e la CEDAW) sono invece stati letti e analizzati in stretta relazione. Ciò non significa negare le specificità dei due gruppi e di alcuni diritti loro propri, ma ammettere come il rispetto dei diritti dei bambini/e abbia ricadute positive sul rispetto dei diritti delle donne e viceversa. Si è quindi cominciato a parlare di complementarietà tra la CRC e la CEDAW, ma ancora più efficacemente di sequenzialità (Price Cohen, 1997). Perché le donne esercitino pienamente i loro diritti, in quanto donne, occorre infatti che le bambine che sono state abbiano imparato quali sono i loro diritti in quanto bambine, e a tutelarli e rivendicarli (Bosisio, Leonini, Ronfani 2003). Quindi, anche se emanata successivamente, la CRC va intesa, come afferma Cynthia Price Cohen, precorritrice della CEDAW, nel senso di imprescindibile punto di partenza per ribadire il riconoscimento dei diritti delle donne e contemporaneamente per considerare i diritti delle bambine come “parte di una più ampia definizione dei diritti delle donne” medesime (Price Cohen, 1997: 74)."

 

Per giungere a una analisi completa della condizione di bambine e donne occorre spingersi oltre le dimensioni consuete di indagine (educazione, salute, benessere materiale) per esplorare fattori nuovi: pari opportunità, partecipazione sociale, accesso all’informazione, ambiente e abitazione, protezione personale, i conflitti, accesso al lavoro, creazione di capitale umano ed economico, sfruttamento del lavoro minorile e la violenza contro le donne.

 

Il WeWorld Index 2017 rileva che i Paesi in cui bambini, adolescenti e donne soffrono di esclusione insufficiente, grave o gravissima sono 102 sui 170 analizzati dallo studio. Senza un intervento repentino le disuguaglianze di genere sono destinate a crescere in maniera esponenziale (il loro numero è aumentato di 22 milioni tra il 2016 e il 2017).

MMAGINE classifica finale WEWORLD

L'Italia fotografata risulta il Paese meno inclusivo dell’UE, ci collochiamo al 21° posto, raggiungiamo la sufficienza. L’Italia dovrebbe fare uno sforzo quasi doppio rispetto alla Norvegia (al primo posto) per conseguire i risultati del paese ideale.

IMMAGINE posizione Italia

Se vogliamo cambiare significativamente le prospettive future occorre lavorare sul sistema educativo/formativo.

Se però osserviamo la spesa in educazione, "dal 2008 il nostro paese ha ridotto significativamente gli investimenti nell’istruzione, tanto da entrare nel novero dei paesi europei che spendono meno.

Nel 2013 all’istruzione è stata attribuita una quota di risorse pari al 7,3% della spesa primaria, a fronte di una media OCSE dell’11%. Il quadro è poco roseo anche se si considera tale spesa in funzione del PIL: negli ultimi anni si è attestata intorno al 4% del PIL, contro una media europea del 5,2%."

Insomma, non comprendiamo l'importanza di simili fattori di investimento, soprattutto non si scorge a livello sociale una sufficiente forza di pressione capace di invertire la rotta intrapresa da chi detiene la guida politica e istituzionale del Paese.

Spendiamo più in protezione sociale che in istruzione: nel 2013 il 45,8% della propria spesa primaria, pari al 21% del PIL. Questa spesa in protezione non si rivolge alle fasce deboli della popolazione più colpite dalla crisi, cioè giovani e bambini, la maggior parte "è destinata ad anziani e superstiti (78,5%), segue la voce malattia e disabilità (8,4%), infine la quota destinata a famiglie, bambini e diritto alla casa (6,5%) e occupazione ed esclusione sociale (6,5%) . Gli investimenti dei Governi 2014-2017 hanno interrotto la serie di anni di taglio di risorse per istruzione università e ricerca, ma non sono, in volume, ancora sufficienti per far prevedere una rapida risalita della posizione italiana."

Per la dimensione "violenza sui minori", l’Italia registra un aumento abbastanza sostenuto nei tassi di maternità precoce: si passa dal 3,96 (ogni 1.000 ragazze di 15-19 anni) del WeWorld Index 2015 al 5,94 del WeWorld Index 2017.

Sebbene nel nostro paese le gravidanze precoci siano di gran lunga inferiori a quelle di altri paesi sviluppati, se si guarda a livello regionale la situazione merita una maggiore attenzione: "nel 2015 su un totale di 1.739 nascite da madri minorenni, più della metà sono avvenute in Sicilia (417) e in Campania (361) (Istat, 2016a). Bambine e adolescenti d’Italia rischiano quindi di rimanere escluse a seconda della regione in cui vivono: le adolescenti del Mezzogiorno sono doppiamente svantaggiate, per il loro genere e per il luogo di residenza."

Pensiamo ai progetti per il contrasto dell'abbandono scolastico, ma ci dimentichiamo quanto sarebbe utile avviare interventi sistematici per incrementare la consapevolezza in temi di salute e diritti, non educhiamo a sufficienza le future donne a prendersi cura del proprio corpo, del proprio avvenire, che significa anche maternità e scelte consapevoli.

"Pur sostenendo che le condizioni economiche non determino da sole l’inclusione o l’esclusione della popolazione under 18, non bisogna trascurarne il peso nell’influenzare i consumi e le scelte delle famiglie, le spese e gli investimenti, il loro benessere."

Un ciclo che si autoalimenta, con effetti che segnano le vite delle future generazioni.

La dispersione scolastica è al 15%, contro una media europea del 10%, con picchi in alcune regioni: 24% in Sicilia e Sardegna; al 17% in Campania e Puglia. I giovani che non studiano, non lavorano e non si formano sono, poi, il 31,1%, contro una media europea del 17,3%, nella fascia d’età tra i 20 e i 24 anni. 

"Famiglie con scarsa disponibilità di reddito avranno meno possibilità di garantire ai propri figli ciò di cui hanno bisogno, penalizzandoli sotto diversi aspetti, in primis l’educazione. La povertà economica è infatti strettamente collegata alla povertà educativa. Un bambino/a o adolescente che vive in una famiglia povera avrà meno o nulle possibilità di andare al cinema, comprare un libro, fare sport in maniera continuativa, andare a un concerto, un teatro o un museo.

Ciò incide sulla possibilità di apprendere, conoscere il mondo, relazionarsi con gli altri e crescere da un punto di vista emotivo e cognitivo, sviluppare capacità, talenti e aspirazioni."

 

Il livello di inclusione delle donne resta stabile rispetto alla precedente rilevazione, soprattutto nella sfera della salute; migliora la partecipazione politica (nel WeWorld Index 2017 le donne occupano il 43,80% delle posizioni ministeriali vs il 30% nel WeWorld Index 2015).

In tema di educazione a fronte di un "miglioramento nei tassi di alfabetizzazione delle donne (che per un paese sviluppato come l’Italia è comunque prossimo al 100%), cala il numero di laureate. Nonostante ciò, le donne laureate sono sempre più degli uomini e si laureano con risultati migliori."

I primi segnali di discriminazione evidente e persistente si avvertono all'ingresso nel mercato del lavoro.

"La dimensione relativa alle opportunità economiche, nonostante il lieve miglioramento del reddito delle donne rispetto a quello degli uomini dal WeWorld Index 2015 al WeWorld Index 2017, mostra il permanere di forti differenze di genere nel mercato del lavoro. Le donne sono occupate in lavori più precari, meno retribuiti, con contratti di lavoro part-time, e ricoprono meno frequentemente degli uomini posizioni apicali.

La maternità o meglio la scarsità/assenza di politiche a sostegno delle madri lavoratrici sono ostacoli per il raggiungimento della parità di genere in ambito lavorativo.

"Un timido passo avanti in questa direzione è l’introduzione, nella Legge di bilancio approvata alla Camera il 28 novembre 2016, del congedo di paternità, della durata di due giorni. (...) Dovrebbe tuttavia essere affiancato da altre misure volte a ridurre le diseguaglianze, la cui espressione più evidente sono le differenze salariali. Tali differenze si ampliano ulteriormente quando le donne diventano madri. Secondo uno studio svolto all’interno del programma VisitInps (lavoce.info, 2016), il reddito di una donna a seguito della maternità, dopo il crollo nei mesi di congedo obbligatorio (durante i quali l’INPS corrisponde un’indennità pari all’80 per cento del salario), torna ai livelli precedenti solo dopo circa 20 mesi, rispecchiando il lento rientro al lavoro, la riduzione delle ore lavorate e il rischio di lasciare o perdere la propria occupazione. Se poi si guarda alle differenze tra il reddito percepito e quello che la donna avrebbe potuto percepire (linea

retta) se non fosse andata in maternità (ipotizzando in questo caso un andamento crescente negli anni), si nota che il divario non viene colmato, neppure dopo 36 mesi."

IMMAGINE Reddito da lavoro delle madri prima e dopo la maternità

Una situazione che va affrontata con celerità. Cosa  abbiamo fatto? Due bei bonus mancia senza tetto di reddito. Non devo specificare altro. Non devo aggiungere altro. Non venitemi a dire che ho capito male, le cose stanno esattamente così.

L’attivazione di politiche e pratiche inclusive deve mettere in collegamento diversi ambiti tra loro interconnessi per poter essere veramente incisiva: il lavoro e l’economia, ma anche la salute, l’educazione, la politica, l’ambiente, la violenza di genere. Solo un programma di welfare strutturato e omnicomprensivo, non con provvedimenti spot. Occorre comprendere come si evidenziava all'inizio che diritti delle/i bambine/i e delle donne sono strettamente legati e politiche che contemplino l'attenzione a tutte le fasce d'età possono seriamente favorire la loro inclusione e scuotere il nostro Paese da una stagnazione e da una indifferenza che segnano pesantemente le loro esistenze.

MMAGINE Raccomandazioni per una migliore inclusione

Questi preziosi report ci richiamano a una responsabilità politica enorme, ci indicano i fattori e le leve su cui dovremmo lavorare. Seriamente.

Non possiamo fondare le politiche per il lavoro su una precarizzazione a vita e sull'affievolimento dei diritti. Si può solo tornare indietro. Infatti è di questi giorni la notizia di una donna licenziata al rientro dalla maternità del suo secondo figlio. Mansione soppressa. Guarda caso la sua. Succede a Grassobbio alla Reggiani Macchine che produce macchinari per la stampa e la lavorazione per l’industria tessile, con 230 dipendenti. Per fortuna dopo la mobilitazione e la solidarietà dei suoi colleghi l'azienda si è poi impegnata a ricollocare la neomamma.

La donna è ancora considerata un "fastidioso e costoso imprevisto aziendale", si tratta invece di un problema che risiede in ambito organizzativo e di (in)capacità imprenditoriali. Medioevo di una cultura aziendale che ancora penalizza, colpevolizza e punisce le donne anziché valorizzarle.

Una donna su tre dopo la nascita del figlio lascia il lavoro, 800 mila donne hanno dichiarato di aver interrotto il lavoro per dimissioni in bianco nel corso della vita, il 20,9% ha rinunciato a incarichi che avrebbe voluto accettare, quasi un milione di donne ha subito ricatti sessuali sul lavoro o al momento dell’assunzione o per la progressione in carriera.

E siccome nessuno o quasi si indigna, siccome si ha anche il coraggio di contrattaccare su questi temi dicendo che l'attenzione è massima e che tanto è stato fatto da questo governo (vedasi il ripristino delle norme contro le dimissioni in bianco), io li invito a parlare con le tante donne che in un modo o nell'altro finiscono fuori dal mercato del lavoro. Perché la risposta non può essere, datti da fare e avvia un'attività in proprio. Non può essere "cavatela da sola", non può essere sputare in faccia alle nostre competenze e al contributo che potremmo dare allo sviluppo e al miglioramento di questo sgangherato Paese misogino. La soglia della pazienza è passata da tempo. Non possiamo più aspettare.

Sistemiamo innanzitutto le condizioni di lavoro e di vita delle donne italiane. Oltre i buoni propositi. Le promesse devono tradursi in fatti. La parità di genere parte dai fatti, in Italia abbiamo ancora tanta strada da fare, a partire dai contratti, dalla lotta alla precarietà, a tutte le forme di violenza, alla qualità del lavoro, agli investimenti in istruzione e salute. Non c'è da stare serene e non possiamo più aspettare, avere fiducia sulla base delle sole parole.

Questa l'ultima roadmap in ordine di tempo siglata al G7 di Taormina per incrementare la partecipazione delle donne alla vita politica e sociale.

Qui la presentazione a Roma del WeWorld Index 2017

 

 

Ritratto di Simona Sforza

Posted by Simona Sforza

Blogger, femminista e attivista politica. Pugliese trapiantata al nord. Felicemente mamma e moglie. Laureata in scienze politiche, con tesi in filosofia politica. La scrittura e le parole sono sempre state la sua passione: si occupa principalmente di questioni di genere, con particolare attenzione alle tematiche del lavoro, della salute e dei diritti.