Sfogo di una madre vicina alla mezza età allo stremo delle forze alla fine del primo quadrimestre di un figlio dislessico.

Una cosa che mi manderebbe in bestia, se fossi al posto di mio figlio, sarebbe sentirmi dire che “basta la buona volontà”. In dislessichese, questa frase suona come “dai, fa niente se sei zoppo, ti ho dato un bel paio di stampelle, tu ora con tanta buona volontà mi arrivi in cima alla montagna”.

Interrogazioni programmate, schemi, mappe, sono stampelle ma non sono bacchette magiche che fanno sparire la dislessia o qualunque altro disturbo specifico dell’apprendimento.
La dislessia è considerata un modo differente di processare le informazioni; non possiamo permetterci di affidare alla buona volontà degli studenti il fatto che tali informazioni vengano effettivamente apprese senza, contemporaneamente, rendere disponibili modalità differenti per l’apprendimento e senza uscire dai rigidi schemi di valutazione.

Una mappa non si fa da sola: è necessario leggere il testo (sì, leggere!), comprenderlo (eh già), analizzarlo, sintetizzarlo e ridurlo a uno schema, il che richiede abilità nell’individuare le informazioni chiave e notevole capacità di sintesi.

Un dislessico si mette davanti al libro con la buona volontà e scopre che la dislessia è sempre lì, a complicare la lettura, la comprensione, e tutto quanto serve: impegno, strategie, metodo, che non sono però parte del DNA né escono dalla busta delle patatine sotto forma di sorpresina quel pomeriggio che affronti 30 pagine di filosofia.

Gli strumenti vanno costruiti, collaudati, misurati, sperimentati. Un lavoro che non può fare un bambino di quarta elementare (ma è complesso anche e ancora per mio figlio in quarta liceo) e che può raddoppiare i tempi operativi. Entrano allora in gioco i tutor, pagati profumatamente, o le famiglie, sempre che abbiano tempo, mezzi e competenze, cose affatto scontate.

Che lo faccia un genitore in prima persona o che ritenga meglio affidarsi a un tutor esterno, o che tutto addirittura pesi sugli studenti più grandi, resta il fatto che bisogna sempre, continuamente inventarsi qualcosa. Ciò che manda in bestia me, invece, è sentirmi controbattere un generico e vuoto “manca il metodo di studio”, come una bella risposta preconfezionata che va bene con tutto, come un nero qualunque.
Potrei tenere un seminario sul metodo di studio!

La buona volontà. Diciamolo: sapere che Einstein e Leonardo da Vinci erano dislessici, aiuta tanto quanto la “buona volontà” e mio figlio, ad esempio, non è uno di quelli a cui si possa dire “coraggio, se ce l’ha fatta Einstein puoi farcela anche tu”. Potrebbe rispondermi molto male e ridurre il libro di fisica a un cartoccio buono solo per giocarci a calcio.

Così, nel tempo, le abbiamo provate un po’ tutte, sicuramente tante: alcune strategie si sono rivelate efficaci, altre meno, altre a intermittenza come le lucine dell’albero di Natale; quello che funziona con storia non funziona con filosofia, ciò che è utile per chimica non ha alcun effetto su fisica.

Tutto però è servito per fare passi avanti verso lo scopo ultimo: renderlo il più autonomo possibile nello studio, fornendogli un ampio ventaglio di opportunità tra le quali trovare il suo metodo. Arrivato in quarta liceo, è abbastanza normale che ritenga di voler fare da solo.

La buona volontà non manca, tuttavia è proprio la risposta scolastica a dirgli che non basta, perché più del suo impegno contano sempre di più la risposta imprecisa e l’esposizione un po’ stentata. Come prendere ogni volta un calcio nelle stampelle mentre provi ad avere una relazione serena con la montagna.

A chi è cecato come me e come la Signorina Carlo suggerisco di togliersi gli occhiali e di convincersi che con la buona volontà sia possibile guidare di notte a fari spenti.
Con me non funziona. Voglio dire, non ci ho nemmeno provato, figuriamoci! So già che non funzionerà.

Così, quando vedo mio figlio che si arrende, che non ci prova nemmeno, capisco che piuttosto che rischiare di schiantarsi contro il solito muro pronto a respingerlo, non senza lasciare qualche segno, non inserisce nemmeno la chiave di avviamento.

La volontà è dunque inutile?
Certo che no, è il motore fondamentale, che però non parte senza il carburante.

E il carburante è la motivazione, è verificare che tutti gli sforzi producono risultati e fanno sperimentare il successo. In questo la famiglia ha sicuramente un ruolo importante, soprattutto nell’atteggiamento, ma sarebbe ancora più efficace se questo carburante lo fornisse la scuola, adottando quel briciolo di flessibilità necessaria per dare corpo ad una didattica realmente personalizzata e inclusiva, che vada oltre le crocette su un PDP e che – cito dalla legge: (…) favorisca il successo scolastico, promuova lo sviluppo delle potenzialità, riduca i disagi relazionali ed emozionali, adotti forme di verifica e di valutazione adeguate alle necessità formative degli studenti (..).

 

Ritratto di Lorenza Gervasoni

Posted by Lorenza Gervasoni

Lorenza, Lora per le amiche. Approdata su Mammeonline nel lontano 1998 in cerca di condivisione alla nascita di mia figlia, ho trovato appoggio, aiuto, consigli di sopravvivenza e una grande famiglia con cui confrontarsi.Adesso ho due figli che hanno, al momento in cui scrivo, 16 e 20 anni.

Ad entrambi sono stati certificati dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento: discalculia per la grande e l’en plein per il piccolo (dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia).
Non sono un’esperta, o forse sì, un’esperta sul campo: quell’esperienza che se non ti ammazza ti fortifica e che proverò a condividere con voi.
Parliamo di DSA, e dintorni anche nei forum di Mammeonline