Ogni essere umano tende alla ricerca della felicità.

La felicità è quello stato di benessere che si raggiunge arrivando a soddisfare uno o più desideri e l’emozione che ne deriva raccoglie quel senso di appagamento generale sia dal punto di vista fisiologico che psicologico.
Che cosa spinge l’uomo verso questa emozione? Cosa ci consente di andare avanti anche nelle situazioni più difficili e ricostruire a piccoli passi questo sentimento? Cosa mi ha permesso di riconquistare l’entusiasmo e tornare in modo diverso ad essere felice?

La risposta non è proprio dietro l’angolo, ma segue una certa logica.

Questo innato desiderio affonda le sue radici nella nostra vita intrauterina, poiché in condizioni ottimali, l’essere umano comincia la sua esistenza quando i suoi genitori iniziano a pensarlo, e la sua vita prende forma nel momento in cui s’incontrano le due entità genitoriali sotto forma dell’unione tra uovo e spermatozoo.

L’ambiente uterino può essere paragonato all’idea che ci siamo fatti del paradiso terrestre poiché tutto è presente così come è necessario che sia. Il legame fisico con la mamma, che automaticamente risponde a tutti i bisogni di fame, sete, senza richiesta e senza fatica, crea quello stato di appagamento in cui tutto ciò di cui si ha bisogno abita in questo luogo: apparentemente limitato per noi dall’esterno, ma profondamente illimitato per chi lo vive da dentro.

Tutto si svolge in un ambiente caldo, accogliente: solo la nascita segnerà l’entrata inconsapevole nel vero mondo del limite.
Ecco…senza questo precedente appagamento totalizzante non potremmo spiegarci l’aspirazione umana al raggiungimento della felicità: noi la ricerchiamo perché l’abbiamo provata, altrimenti non sapremmo neanche immaginarla.

Da questa sensazione piacevole in cui il contatto con la mamma stabilisce per il bambino il suo stato fisico ed emotivo di benessere, partirà il suo contatto, via via più ampio con il mondo della vita.
Il papà durante la gravidanza interagisce col bimbo attraverso la mamma, una donna sostenuta durante i nove mesi da un compagno premuroso e custode di quell’entità che cresce, condividerà spontaneamente il proprio benessere con il bambino.

Il cerchio quindi che unisce le tre identità inizia già a delineare ciò che dopo il parto dovrà continuare ad essere: l’unione protettiva che permetterà di ristabilizzare gli equilibri del “nuovo” ingresso fisico del bambino nella coppia… con tutto ciò che comporta a livello di riorganizzazione di spazi e di sensazioni emotivamente forti.

Il parto segna quindi il primo distacco che, attraverso il ritmo delle contrazioni, viene percepito come un passaggio naturale e graduale, permettendo alla mamma di predisporsi ad incontrare il bambino e a conoscerlo in un altro modo, in una comunicazione diversa che la consolerà della perdita di quel contatto che l’ha accompagnata per mesi.

Devo aggiungere che con la nascita attraverso il cesareo alcune sensazioni del parto non possono essere provate e rimane quella sensazione di passaggio “non naturale” sia nel “pre-” che nel “post-”, ben venga comunque in quelle situazioni di urgenza in cui è ritenuto necessario intervenire, sia per il bambino che per la mamma. Sicuramente poter ricreare situazioni accoglienti, quali il contatto con la mamma e il papà e il sostegno nell’allattamento (che all’inizio può risultare scomodo), aiuta a superare la velocità di un passaggio e la paura dell’urgenza…

Dopo il parto il bambino diventa un’entità fisica che occupa uno spazio nel mondo e, la sua felicità che prima era tutta raccolta in un mondo ovattato e circoscritto, si trova a fare i conti con degli spazi ampi entro i quali può sentirsi perso perché non ha più contatto con le pareti uterine che, sì lo comprimevano, ma attraverso le quali riusciva ad avere una percezione di sé.

Cosa fare quindi per donargli un po’ di quella situazione di benessere, oltre alle infinite coccole della mamma e del papà, che lo possa contenere?
Un piccolo consiglio… basta un asciugamano in cui avvolgerlo a mo’ di baco che lo tenga “stretto” in un abbraccio morbido e che gli doni quella sensazione di contenimento vissuta in un passato così recente, aiutandolo nella propria culla a trovare in “autonomia” un proprio spazio in cui “ritrovarsi” e “riscoprirsi”.

Neonato avvolto stretto stretto in un telo

La mamma in quel frangente sarà felice di averlo affidato ad un luogo accogliente e potrà “volare” a farsi un giro in doccia… cosa non impossibile se si inizia da subito a pensare al neonato come a qualcosa che dipenda da noi, ma che nello stesso tempo può e deve trovare una propria dimensione.

Una mamma che continui ad essere una donna, con tutte le modifiche del caso, avrà ripercussioni positive anche sull’accudimento del piccolo.
Ovviamente a parole tutto sembra possibile, ma nella pratica, per molte, sintonizzarsi sul bambino spesso non risulta facile. Basta infatti un pianto di troppo per accantonare tutti i buoni propositi e correre alla ricerca di un motivo per porre fine a quella, che per il neonato può essere semplicemente “espressione della sua presenza” e non necessariamente un disagio: “Urlo Quindi Esisto”.

Attenzione: il bambino può piangere, deve farlo! Non può comunicare diversamente, quindi una volta che sono stati sistemati i canonici “pappa, pannolino, nanna” mettiamoci sulla frequenza di Radio Serenità e accettiamo che il nostro bimbo non è il classico mangia&dormi, come il figlio della nostra vicina!

In occasione del mio primo figlio mi regalarono un libro in cui, oltre a diverse spiegazioni sui ritmi e sulle emozioni del neonato, vi erano elencate delle tipologie di bambini, quello angelico, da manuale, sensibile, vivace, scontroso…

Il mio bambino non rientrava in nessuno di questi schemi… come potevo quindi attuare tutti i consigli minuziosi adatti alla sua cura? Non potevo applicarne neanche uno! Imparai ad accogliere il mio bimbo come “mio”, “essere unico”: il primo (passatemi il termine: la cavia), allattato al seno (rigorosamente ad orario per mio volere e mia salvezza), che purtroppo non prendeva il ciuccio e per addormentarsi non trovava alcuna consolazione che il pianto: non accoglieva il sonno, ma lottava contro di esso.

Imparai che vi era un chiaro segnale: gli sbadigli…già dal primo al terzo le manovre nanna dovevano essere avviate. Pian, piano dandogli dei ritmi che lo aiutavano ad avere dei punti di riferimento riuscii ad aggiustare il tiro di quelle urla contro Morfeo.

Per mia felicità trovai la frequenza giusta e mi impegnai a rispettare i suoi tempi aiutandolo a trovare autonomia nel momento del sonno coi soliti momenti di rito, seguendo segnali, mantenendo gli orari…
Imparai ad accettare mio figlio per ciò che era e non per ciò che poteva farmi comodo.

Una mamma felice e serena è un profondo beneficio per il bambino, l’ansia di trovare risposte ci allontana da quell’obiettivo innato che non possiamo fare a meno di rincorrere e raggiungere…poniamoci in ascolto, senza mettere da parte la nostra identità ed insegniamo al nostro piccolo, da subito, che la mamma è lì pronta a mediare ogni passaggio verso l’autonomia: la prima vera conquista verso il mondo.

Ognuno di noi nasce con un bagaglio che ci porterà a scoprire e ri-scoprire  la bellezza della vita cercando dentro di noi i mezzi per liberarci da paure che ci rallentano e ci separano dalla gioia di vivere: basta un incontro, una persona, o più di una, per continuare a credere in noi stessi… un essere umano “educato alla felicità” è in grado di scorgere risorse anche dove sembrano esserci solo sconfitte: lasciamo che il tempo rielabori gli eventi, ascoltiamo noi stessi, rallentiamo i ritmi, concediamoci degli spazi in cui ritrovarci, anche in solitudine, per dare un impulso nuovo a quel sentimento che ci muove verso la Vita.  

Qui un passo della Lettera sulla felicità di Epicuro che mi è sembrata molto attuale:

“Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'anima. Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l'età. Da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l'avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per averla.[…] Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell'animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall'ansia. Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell'animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno. Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore. È bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere”.

 

Francesca Biazzetti