Siamo con le donne e gli uomini che, singolarmente o in luoghi e associazioni, condividono la necessità di agire per salvare vite umane.
La crescita esponenziale delle guerre sul pianeta dipende da una dissennata politica delle risorse che si fonda sulla non dichiarata decisione di selezionare le vite destinate a fruire del territorio, dell’acqua, dell’aria e della libertà di abitare quest’unica terra che abbiamo a disposizione.
Migranti sono donne e uomini, ma non possiamo dimenticare che, come ognuna/o di noi, sono prima di tutto figlie e figli, nate e nati da un corpo femminile che si fa materno. Che accada per scelta o evento, desiderio o costrizione, il lavoro del diventare madre è a favore della vita perché questa possa compiersi dentro tutto il tempo possibile.
Nessuna persona viene messa al mondo per essere preda dei mercanti di morte.
La condizione umana è già soggetta a malattie, catastrofi, dolore e appare davvero dissennato il fatto che alcuni si dedichino ad aggravare questa condizione che dovrebbe invece unirci insieme per renderla più sopportabile.
Oggi, che anche la scienza ha dimostrato la nostra comune origine, sentiamo che è tempo di fondare il diritto umano sulla comune nascita e ripensare la politica anche tornando alla parola più dimenticata e controversa della Rivoluzione francese.
La fratellanza infatti fu subito dimenticata dagli uomini, che esclusero con la violenza le sorelle.
Le donne, che avevano fatto la stessa rivoluzione per i diritti universali di libertà e uguaglianza, furono ricacciate nella subalternità culturale e subordinazione giuridica dentro una famiglia che manteneva la forma patriarcale delle relazioni e delle eredità.
La distinzione patriarcale tra figli legittimi e illegittimi, che a lungo ha segnato a lutto il nascente diritto liberale e democratico nel civile occidente, ha più ampiamente condizionato e deturpato i diritti di cittadinanza, stabilendo gerarchie di accesso fino alla lunga permanenza della servitù, anche tra uomini.
Ci sono voluti due secoli perché tutti gli uomini, e infine anche tutte le donne, godessero dei fondamentali diritti civili e politici nella piccola parte del pianeta che, contemporaneamente, ha preteso di affermare, attraverso l’imperialismo guerrafondaio, il proprio dominio su risorse e persone definite come appartenenti ad altri mondi.
Eppure possiamo imparare a pensarci come fratelli e sorelle, diversi e vicini, dentro la comune condizione, pari per nascita e responsabili di vita, consapevoli che la morte è nel mistero che ci aspetta e non assoggettata o delegata al potere di pochi e all’insipienza obbediente di molti.
Noi non possiamo chiudere gli occhi davanti alle contraddizioni del presente.
Mentre sappiamo che le parole libertà, uguaglianza, responsabilità richiedono un nuovo e più profondo e onesto confronto sociale, sul senso del diritto la qualità della giustizia l’intera esistenza umana, sentiamo che prima di tutto le vite vanno salvate perché sono la nostra comune autentica ricchezza.
Su questo principio non possono esserci tentennamenti e nessuno può mettere condizioni che non siano finalizzate al benessere di tutte e tutti.
Confrontarci con l’emergenza migratoria, che spinge donne e uomini a fuggire guerre penuria e morte verso l’Europa, significa confrontarci con la nostra fragile democrazia: non possiamo salvarla se alziamo barriere che, con il pretesto di proteggere, ci imprigionano nelle oscure fortezze delle nostre paure.
“Io in quanto donna non ho patria. In quanto donna, la mia patria è il mondo intero”.
Riprendiamo le parole di Virginia Woolf perché non è con qualche garanzia di pari eredità, con qualche piccolo privilegio da parvenu che il potere patriarcale può conquistare il nostro sostegno al nazionalismo xenofobo e razzista che ha già devastato l’Europa nei secoli passati.
Noi donne siamo state troppo a lungo straniere senza diritti, dentro le nostre stesse case, per non capire il legame profondo tra gli attacchi alla nostra autodeterminazione nelle scelte procreative e di vita, il rinascente sessismo omofobo e il rilancio di arroccamenti identitari affermati con la violenza.
I governi facciano la loro parte perché la parola Europa diventi quella speranza evocata nel buio profondo della guerra come casa comune e accogliente, luogo di libera costruzione del futuro e possibilità di pace.
In questa speranza è riposto il frammento della nostra storia migliore, l’unica nella quale possiamo riconoscerci senza vergogna.