Doppia presenza (secondo gli studi sociologici degli anni '70), doppia giornata, doppio lavoro (Laura Balbo coniava questa categoria nel 1978), doppio sfruttamento (mercato-famiglia) l'emancipazionismo ha rappresentato questo "doppio" nella vita delle donne, ha mostrato tutti i limiti insiti in un contesto sociale in mutamento, ma con ruoli privati molto congelati, specie qui in Italia, e in un modello di lavoro e di produzione nettamente ed esclusivamente maschile.
La nostra gestione simultanea dei due globi di vita pubblico-privato, familiare-produttivo, produzione-ri-produzione, hanno cercato di trovare un equilibrio, un’equiparazione tra questi ambiti.Per molto tempo abbiamo visto differenza e uguaglianza come due cose separate, inconciliabili, inseguendo la seconda, rifuggendo dalla memoria della prima.Per poter entrare e permanere in certi contesti lavorativi abbiamo dovuto assecondare il fatto che il modello maschile si rifiutasse di integrare la differenza sessuale nella cultura del lavoro creata dagli uomini.
L'accettazione e l'integrazione esigevano la negazione di ogni specificità, soluzione diversa, e l'invisibilità del genere con cancellazione della differenza. Quindi abbiamo avuto l'accesso, ma la parità è rimasta teoria, poco reale. Al contempo, in lavori tipicamente femminili, sono state riversate alcune capacità sviluppate in ambito domestico.
Cristina Borderías, nel suo "Strategie della libertà", Manifesto Libri, 2000, scrive: "Produzione e riproduzione esigono dalle donne logiche di accettazione e di esercizio di valori radicamente contrapposti. Per questo la doppia presenza ha significato non solo la difficoltà di accumulare due giornate di lavoro o di assicurare una presenza simultanea nella famiglia e nella professione, ma necessità di tenere insieme e mettere in relazione le logiche dispari delle due culture del lavoro."
Quindi è necessario cambiare i tempi, trovare una nuova forma di organizzazione sociale e di regolare pubblico e privato.
Con la crisi del modello tradizionale di occupazione (accorciamento del tempo di lavoro all'interno del ciclo di vita, riduzione degli orari, aumento della disoccupazione, destandardizzazione e flessibilizzazione dei tempi; ma la destandardizzazione del tempo di lavoro mette in crisi anche la centralità del lavoro produttivo e del tempo produttivo?) come possiamo noi donne riappropriarci di alcuni cambiamenti che vengono da altri interessi e dinamiche?
Flessibilità è stata una estensione senza limiti di orari e mansioni, che rappresenta una vera e propria nuova tirannia.
Tirannia dell'irregolarità, dell'imprevedibilità, di una disponibilità senza confini, producono non di certo una cultura nuova del lavoro e del tempo di vita, bensì una ricentralizzazione del lavoro produttivo, riducendo ancor più il tempo di vita, della famiglia, degli affetti, del privato, delle passioni, il tempo per costruire il nostro benessere.
La flessibilità così intesa, unita alla disoccupazione, porta a questo stato di peggioramento.
Anche l'idea positiva di un tempo parziale diventa orrorifica, perché rappresenta una scelta obbligata sia a causa della scarsità di lavoro sia per poter far fronte all'altra faccia del lavoro delle donne, quello privato, quello di cura, ancora prettamente femminile.
Se da un lato occorre riflettere sulle conseguenze disastrose di un ritiro dello Stato dal Welfare, con un uso sempre più massiccio di servizi privati, dall'altro occorre richiamare l'urgenza di un cambio di paradigma proprio dal lato degli uomini, che dovranno partecipare sempre più attivamente ai compiti di care.
Non voglio pensare che si continui a rendere sempre più profondo e incolmabile il gap tra le donne che si possono permettere di esternalizzare i compiti di cura e coloro che non avendo aiuti di nessun tipo sono costrette a rinunciare a lavorare.
Pretendere un intervento pubblico nei servizi di sostegno al care, significa colmare una grave fonte di discriminazione tra donne di censi diversi.
La divisione sessuale del lavoro (produzione-uomo; riproduzione-donna) non è mai passata di moda, e le condizioni socio-economiche attorno la alimentano. Anche perché non si può continuare a pensare che tanto c'è il welfare generazionale costituito dai nonni.
Il sistema per reggersi equamente non può avere variabili aleatorie o paracaduti di emergenza, soprattutto considerando i progressivi cambiamenti che coinvolgono le vite delle persone che hanno la fortuna di invecchiare.
Sarebbe da proporre un nuovo contratto sociale, in cui si dovrebbe creare una rinegoziazione dei tempi del lavoro tra uomini e donne.
Cambiare cultura del lavoro serve a cambiare le relazioni tra i generi. Riorganizzare il lavoro nella sua complessità e globalità.
Sinora flessibilità ha avuto un'accezione negativa, con una mancata ripartizione equa del lavoro di produzione e riproduzione, con nuove catene, disuguaglianze, precarizzazione.
La sfida è rinegoziare le vite dentro e fuori casa, tempi e modalità di lavoro, aspetti relativi alla produzione e riproduzione.
Ripensare il rapporto tra tempi di vita-lavoro significa prendere atto e correggere un sistema che di fatto impoverisce e aliena.
Ciò implica la necessità di mettere la vita e i bisogni umani al centro dell'organizzazione sociale, con etica del lavoro che fa rima con etica del benessere umano.
Ma precarietà, retribuzioni incerte e basse, tempi di lavoro e modalità di lavoro super-flessibili come si conciliano con l'autodeterminazione delle donne, quanto determinano scelte obbligate e vere e proprie nuove forme di schiavitù?
Perché poi se torniamo alla realtà, le possibilità di contrattare nuove forme di vita e di lavoro sono veramente un privilegio di poche.
Per anni abbiamo continuato a supportare il sistema capitalistico fornendo welfare gratuito, che è sempre stato considerato scontato, lì pronto all'uso, per garantire che il sistema di produzione e di riproduzione si reggesse, senza grossi scossoni.
Abbiamo fatto comodo perché abbiamo sempre avuto un ruolo doppio, se non triplo (cura familiare, cura degli anziani, lavoro produttivo), perché siamo sempre state pagate meno, perché siamo state sempre quelle disposte a fare un passo indietro, sacrificandoci.
I compiti di cura fanno parte pienamente del sistema economico, anche nell'invisibilità e nella scarsa considerazione di cui hanno goduto. In questo vortice di "lavori" la nostra forza politica è sempre stata silenziata, sbriciolata, la nostra lotta sacrificata su un modello di partecipazione fittizia.
L'assorbimento in quel modello tanto amato di emancipazionismo al maschile ci ha indebolite, togliendoci il tempo per pensare a una via altra, diversa, autonoma, autenticamente nostra. A questo oggi dovremmo dedicarci, per suggerire nuove formule, rendendole diffuse e possibili da praticare.
Visto che come sostiene Cristina Borderías: "I diversi contesti sociali, economici, familiari o professionali, ma anche i progetti, le priorità e i valori femminili introducono una grande variabilità nelle strategie femminili di doppia presenza, che qualche volta è stata vista come una condizione eccessivamente omogenea."
Gli studi sulla doppia presenza "hanno contribuito a mettere in rilievo l'enorme capacità delle donne di creare, a partire da una costrizione sociale, modalità di lavoro cultura e identità non riducibili in nessun modo al modello maschile."
Il problema è, ripeto, la loro diffusione e la loro accessibilità per tutte, a beneficio di tutte. Per questo io credo fortemente in un impulso da parte dello Stato per consentire che certe pratiche e certi cambi di paradigma siano praticati e si affermino.
Ascoltate le donne e le loro esperienze reali, da cui scaturiscono soluzioni "nuove" e approcci diversi.