Possiamo permetterci un figlio? Nonostante la natalità sia in caduta libera, siamo paralizzati e mostriamo sempre una certa incredulità di fronte alle sue cause. Per alcuni sembra inimmaginabile riflettere attentamente sulle responsabilità che comporta diventare genitore oggi.
Per molti decisori politici è difficile avere un approccio sistemico e strutturale a queste questioni, e si procede casualmente, a singhiozzo, con misure quasi sempre poco efficaci e che non incidono se non marginalmente nelle vite reali, che non consentono di avere prospettive positive verso il futuro.
Nella relazione del convegno “Possiamo permetterci un figlio?” (qui la registrazione video http://www.uilweb.tv/webtv/default.asp?ID_VideoLink=4142 e la relazione finale), organizzato dalla Uil e dal Coordinamento Pari Opportunità, leggiamo il seguente quadro italiano: "Si fanno sempre meno figli: secondo i dati Istat, nel 2015, le nascite sono state 488.000, 15.000 in meno rispetto al 2014, minimo storico dall’Unità d’Italia. Per il quinto anno consecutivo, nel 2015 si è registrata una riduzione del numero di figli per donna, sceso a 1,35 (1,29 per le madri italiane). Una delle principali cause della bassa natalità è costituita dagli ostacoli economici e culturali che incontrano le donne, soprattutto quando decidono di diventare madri."
Entro 90 anni la popolazione fertile italiana arriverà a zero.
Ma come decidere di avere un figlio tra precarietà e mancanza di lavoro?
Leggiamo ancora che nel 2015 su circa 22,5 milioni di occupati, le donne sono state 9,4 milioni. La flessibilità oraria di lavoro (il part-time più o meno volontario) è prevalentemente targata “donna”: circa 2,6 milioni di donne (in aumento del 22,6% rispetto al 2008) a fronte dei 772.000 uomini.
Il 64,2% degli inattivi è “donna”: 9 milioni di persone, di cui circa 2,2 milioni delle quali lo sono per motivi familiari (rispetto ai 146 mila uomini) e 1,2 milioni per scoraggiamento nella ricerca di un lavoro (rispetto ai 689 mila uomini).
Siamo ancora al dato per cui i compiti di cura pesano ancora tutti principalmente sulle spalle della popolazione femminile. Il gap salariale uomo-donna appare evidente in tutta la sua magnificenza, per non parlare della segregazione delle donne nelle qualifiche più basse.
Il livello delle retribuzioni femminili part-time appare in tutta la sua tragicità perché risulta evidente che si lavora per le briciole e se non si ha nemmeno un aiuto familiare per condividere i compiti di cura, diventa davvero un esercizio di sacrificio che non porta benefici, se non quello di conservare se tutto va bene il posto di lavoro. Naturalmente salvo mobbing, carriera bloccata, crisi aziendali fittizie per consentire di mandare a casa le donne scomode.
Ci facciamo sempre le stesse domande, sul perché non si fanno figli. Il congedo di maternità ci spetta per legge (due mesi prima e tre dopo, oppure un mese prima e 4 dopo il parto), ma l'annuncio di un figlio viene vissuto come un cataclisma da molti datori di lavoro. E anche se è stata ripristinata la normativa per contrastare le dimissioni in bianco, i metodi per indurre "legalmente" alle dimissioni restano variegate. Ci sono casi in cui vieni costretta a rinunciare "volontariamente" anche al congedo matrimoniale. Le conseguenze sono sempre le stesse, prendere o lasciare. Ne parlavo anche qui: Dimissioni in bianco e politiche che riguardano le donne
Sempre dalla relazione della UIL leggiamo:
"Quasi una donna su quattro (22,3%) che risultava occupata al momento della gravidanza non lo è più dopo la nascita del primo figlio e per due lavoratrici su tre una delle cause maggiori rilevate, è proprio la difficoltà di conciliare i tempi di vita con quelli di cura della casa e della famiglia."
Dai Rapporti annuali (di cui il più recente è del 2014), si evince che, nel 2014, su un totale di 26.333 dimissioni convalidate, l’85,4% (pari a 22.480) ha visto mamme “confermare” (continuate a contarci e a girare la testa dall'altra parte) le proprie dimissioni dal lavoro per esigenze di cura del bambino, a fronte di 3.853 papà dimissionari. Queste dimissioni arrivano dopo lunghi e difficili periodi, spesso dopo pressioni di ogni tipo, non sono fulmini a ciel sereno. Per tacitare la nostra coscienza preferiamo credere che siano casi di povere donne che non si sono sapute organizzare.
Conciliare è difficile perché lo Stato italiano oggi spende l’1,4% del PIL per famiglia e maternità ( l’1% della ricchezza prodotta), contro il 2,1% della media europea con il record della Danimarca pari al 3,7% della spesa.
La condivisione dei compiti di cura non si realizza da sé, ma va incentivata, va sostenuta e progettata adeguatamente. Non può essere lasciata alla buona volontà dei privati. Il cambiamento culturale non avviene se non c'è un accompagnamento vantaggioso per tutt*.
Per i servizi dedicati alla prima infanzia occorre prevedere non solo nidi, ma spazi educativi, spazi gioco con flessibilità oraria, che siano accessibili a tutti e siano di qualità. A Milano un nido privato può raggiungere anche i 600 euro mensili e non è detto che il servizio sia di qualità.
Nella relazione della Uil leggiamo: "Ad oggi l’offerta complessiva di asili nido è pari a 9.241 strutture, di cui 41,9% pubbliche ed il restante 58,1% private; ogni asilo nido dovrebbe accogliere 226 bambini. Accanto a questa analisi quantitativa dei servizi offerti occorre evidenziare come vi sia anche una eterogeneità rispetto agli standard qualitativi diversi da regione a regione: rapporto educatore/ bambino, titolo di studio richiesto per essere educatore, spazio minimo per bambino ecc.
Attualmente nido (0-3 anni) e infanzia (3-6) sono due segmenti ben separati. Con una differenza fondamentale: mentre la scuola materna è un diritto, gestita dallo Stato e dai Comuni, sulla base di programmi nazionali ed in continuità con la primaria, il nido è un servizio a domanda individuale non obbligatorio e tanto meno gratuito. Con una conseguente disomogeneità sul territorio, vista la presenza di 18 leggi regionali differenti.
Nella recente legge n° 107/2015 – La Buona Scuola- il MIUR è intenzionato a portare all’interno delle proprie competenze anche il periodo 0-3 lasciando la gestione agli enti locali ma sulla base di una serie di direttive nazionali; ciò con l’obiettivo di eliminare la disparità nell’offerta del servizio e creare continuità con l’ingresso nel mondo della scuola. Lo sviluppo delle “Pari Opportunità” deve iniziare dalla nascita, anche perché è scientificamente provato che la fascia d’età 0-3 anni è fondamentale nella crescita dei bambini.
Bisogna, però, aspettare il Decreto Attuativo sulla legge di cui sopra chedeve impegnare risorse certe per portare alla omogeneizzazione dei servizi su tutto il territorio nazionale, stabilendo quali siano i livelli essenziali delle prestazioni da considerare soprattutto per lo 0/3."
Ciò che servirebbe a mio avviso è racchiuso qui https://simonasforza.wordpress.com/2016/04/21/di-cosa-abbiamo-veramente-bisogno/
Avevo già espresso cosa pensavo sui bonus.
Leggevo ora a proposito della carta della famiglia, che "consentirà l’accesso a sconti sull’acquisto di beni e di servizi, o a riduzioni tariffarie concessi da soggetti pubblici che intendono aderire all’iniziativa. Verrà concessa alle famiglie costituite da cittadini italiani o stranieri residenti nel territorio nazionale con almeno tre figli a carico, considerando l’indicatore ISEE di riferimento."
In pratica devi accumulare i problemi, avere almeno 3 figli e devi avere un ISEE rasoterra per poter ricevere aiuti. Sappiamo anche che crescere un figlio non è riconducibile unicamente a fattori materiali, ma forse occorrerebbe investire maggiormente su altri fattori (istruzione, valori, educazione) che hanno un impatto permanente e più vasto.
Insomma, siamo ai soliti pannicelli caldi.
Questi i suggerimenti presenti nella relazione della UIL:
La penalizzazione per le donne oggi arriva più in là, non la si avverte negli studi, si inizia a intravedere all’ingresso del mondo del lavoro, in termini retributivi, ma spesso non la si percepisce perché i datori di lavoro ci tengono che certi “favori” di genere non vengano divulgati troppo.
Il buco nero arriva con la maternità o con l’approssimarsi della scadenza dell’orologio biologico, che guarda caso è un segnatempo di cui solo le donne sono dotate e che sembra la fonte di tutte le sventure aziendali.
Effettivamente, sembra di stare all’anno zero, come se fossimo agli albori dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Una donna a cui si richiede di essere paracadute della società e dell’uomo nella vita privata e in quella pubblica, e quel “problema comune della gestione della quotidianità domestica” diviene improvvisamente un problema della donna, ancora e quasi esclusivamente femminile.
C’è chi si organizza, ma quasi sempre è un’organizzazione che prevede di scaricare il peso su qualcuno esterno alla coppia, familiare o fornitore di servizi di cura e di faccende domestiche. Pesa la differenza retributiva sulla scelta del congedo parentale o nel caso più estremo di dimissioni per far fronte alla gestione familiare.
Pesa l’indifferenza e l’isolamento in cui tutte queste scelte avvengono.
Pesa il giudizio severo di coloro che non si capacitano del fatto che a un certo punto la donna rinunci a tenere quell’equilibrio sospeso da funambola della famiglia e rinunci a lavorare. Non hanno la stessa reazione però quando ti vedono strisciare quotidianamente, cercando di trainare un peso più grande di te.
Perché il sapersi organizzare è una delle tante favole che ci raccontiamo e che ci raccontano per continuare a farci fare le bestie da soma.
La disparità continua ad annidarsi dappertutto, ci arrabattiamo per superarla, per non vederla, per farci l’abitudine, ma come negare che alla fine colpisce quasi tutte noi, in un modo o nell’altro? Forse un primo passo utile per uscire da questi problemi è quello di abbandonare l’abitudine a risolvere i problemi ognuna per proprio conto, in ottica individualistica, tornando a un approccio più collettivo delle sfide quotidiane.
Consiglio di lettura: Parità di genere e divorzio all'italiana