Leggendo questo articolo apparso sul Guardian ho riflettuto sui tanti stereotipi e alibi che tuttora insistono quando si parla di lavoro delle donne.
Si parte dal dogma secondo cui: "il divario retributivo di genere non ha nulla a che fare con la discriminazione nelle decisioni di assunzione o di promozione". Per la serie, il problema non sussiste, viviamo in una società egualitaria, in cui sono sufficienti il merito, le competenze e gli skills.
Poi ci sono le donne che dal loro privilegio e dalla loro totale "adorazione di un capitalismo libero", sostengono che in reltà sono le donne a scegliere di lavorare per meno, garantendosi uno spazio in ogni occasione "nell'interesse dell'equilibrio".
Certo, la solita favola della libera scelta, quando davanti non hai grandi alternative e quando c'è un compromesso a cui sottostare che ti schiaccia quanto un macigno.
"Ma il divario retributivo non è la scelta delle donne. È sia una causa che una conseguenza della disuguaglianza di genere. Per molti aspetti è più importante della discriminazione retributiva perché mette in luce le profonde disuguaglianze strutturali in ogni parte della nostra società e dell'economia." rileva giustamente Sandi Toksvig.
La situazione in Uk non è difforme da quanto accade in Italia: la crisi ha di fatto tagliato la spesa in infrastrutture sociali, viste come ambiti sacrificabili. "Secondo Save the Children, 870.000 madri tornerebbero sul posto di lavoro se potessero permettersi un'assistenza all'infanzia - riducendo i sussidi di disoccupazione e aumentando la base imponibile."
Si investe in ambiti "maschili", in infrastrutture fisiche, perché si pensa che facciano da traino all'economia. Non si capisce che un investimento nell'assistenza all'infanzia e sociale può portare molti benefici: si fatica a comprendere che "la crisi globale della disuguaglianza è una crisi di disuguaglianza di genere."
"Le nostre vite sono ancora rigidamente divise in economiche e sociali, produttive e riproduttive, retribuite e non retribuite. La metà ha sempre più valore dell'altra. Il risultato è che la redistribuzione della ricchezza in questo paese, e globalmente, troppo spesso avviene dalle donne più povere agli uomini più ricchi."
Sembra che non si voglia accettare l'idea che una maggiore uguaglianza delle donne corrisponda a un beneficio diffuso.
C'è una mano invisibile, un lavoro invisibilizzato, gratuito e dato per scontato che produce ricchezza per l'intera comunità, che copre i tagli governativi, che consente in assenza di sostegni statali, di sopperire a tutte quelle richieste di "cura", di assistenza.
Sarebbe ora che onorassimo e riconoscessimo questo contributo, senza pensare che la parità, l'uguaglianza passi solo attraverso un lavoro retribuito, a proposito del quale, tra l'altro, dovremmo domandarci a quali condizioni viene svolto (basti pensare ai numeri dei lavori saltuari, per i quali 2 su 3 sono donne).
Cifre alla mano, in un documento datato ottobre 2017 dell'Istat leggiamo: "Le donne hanno effettuato, nel 2014, 50 miliardi e 694 milioni delle ore di produzione familiare (il 71% del totale). Le casalinghe, con 20 miliardi e 349 milioni di ore, sono i soggetti che contribuiscono maggiormente a questa forma di produzione.
Il numero medio di ore di lavoro non retribuito svolte in un anno è pari a 2.539 per le casalinghe, 1.507 per le occupate e 826 per gli uomini (considerando sia quelli occupati, sia quelli non occupati)."
Una bella fetta di economia invisibile e misconosciuta.
Dovremmo iniziare a parlare di quanto l'economia mondiale si avvantaggi del lavoro di cura non pagato, di quanto questo pesi nelle economie statali, di quanto i governi ne traggono profitto, disinvestendo in assistenza pubblica. Soprattutto non si investe con convinzione e sistematicità in misure volte a una redistribuzione dei carichi tra uomini e donne, perché anche questo permetterebbe notevoli passi in avanti e migliorerebbe la qualità e il benessere di vita.
Ragioniamo sui motivi alla base di una questione meridionale dell'occupazione femminile, in un Paese che offre ben poche alternative al welfare familiare. Interroghiamoci su ciò che non vogliamo vedere, che ci fa piacere non considerare. Un lavoro di cura non solo dei nostri cari, donne che attraverso il loro impegno volontario arricchiscono le nostre comunità, non solo di contributi tangibili, ma educativi, anche altamente professionali, di sostegno a 360°, sopperendo alle richieste di "cura" umana, in tanti ambiti in cui c'è un vuoto di intervento. Rendere invisibile tutto questo si può considerare una forma di abuso, una violenza di un sistema che non vuole riconoscere un vantaggio e non accenna a comprendere che la riflessione sulla redistribuzione della ricchezza passa anche da una comprensione di questi fenomeni e di come i compiti andrebbero maggiormente condivisi e in ogni caso valorizzati. Incrementare e diffondere la percezione di quanto rilevante possa essere questo lavoro invisibile, è il primo passaggio per pretendere che l'assetto cambi, che i governi si responsabilizzino, investendo per consentire un riequilibrio dei pesi, dei compiti, con ruoli sociali, familiari, lavorativi più equi, meno discriminanti. Perché non si debbano più sentire tutti quegli stereotipi che lapidano le donne e le giudicano senza comprenderle. Siamo stufe di essere trasparenti e di sentirci al contempo colpevolizzate. Vi facciamo comodo, ma chissà come mai dobbiamo tacere ed essere considerate come zavorra, anche quando si sa benissimo che non lo siamo. Il dibattito su questi temi sarà sempre inficiato da un addossare le responsabilità unicamente sulle donne, quando sappiamo benissimo che il mutamento passa attraverso una rivoluzione dei ruoli e dei compiti di genere. Continuiamo a farci del male, travisando dove sta il cuore della questione.
P.S. A proposito di miti che generalizzano e invisibilizzano una parte di realtà.
A coloro che sostengono che un lavoro retribuito garantisce l'indipendenza economica, ricordo che non sempre è sufficiente. La realtà spesso è diversa. Al di là della consistenza della retribuzione, assai variabile e spesso esigua, della precarietà degli impieghi.
Mi sembra il caso di non dimenticare tutte le donne, non son poche, che sono vittime di violenza economica perché il compagno detiene, pretende, il controllo anche sul portafoglio della donna, ed ogni decisione di spesa è sotto il vaglio dell'uomo, pena l'ira funesta del mitico breadwinner che stenta ad essere superato.
Conoscete le vite delle donne, tutte.
Sarei felice di poter diventare anacronistica e di poter vedere presto un cambiamento significativo, soprattutto nella mentalità, a partire da noi donne, che spesso siamo le prime "nemiche" di noi stesse.
Una serie di articoli che ho scritto negli anni per cercare di spiegare tutto ciò che ruota attorno al lavoro di cura:
Donne e lavoro: rivendichiamo la nostra differenza
Questione di gender gap: la partecipazione al mercato del lavoro ha un costo
Approfondimento: https://journals.openedition.org/qds/995