Ha suscitato clamore l'articolo di Corrado Zunino apparso su La Repubblica con il titolo “Qui niente poveri né disabili. Le pubblicità discriminatorie dei licei”.
Al di là del titolo, che cita erroneamente delle pubblicità mentre si tratta dei dati di autovalutazione delle scuole – il cosidetto RAV – rimane il fatto che, se i dati sono frutto di numeri reali, le modalità di utilizzo degli stessi adottate da alcune scuole, sia sicuramente discutibile.
La questione più rilevante è legata all'infilata di dati riguardanti le elevate condizioni socio-economiche degli studenti, sciorinate come elemento di vanto per determinare non solo il prestigio della scuola ma anche una succulenta offerta formativa e didattica da esse derivanti.
Un po' più in sordina è passato il fatto che alcuni istituti si vantino di poter attuare una didattica ottimale per l'assenza (o quasi) di disabili e studenti con Bisogni Educativi Speciali (ivi compresi i DSA).
E' un dato di fatto che ancora i consigli orientativi vengano emessi in funzione della mera valutazione numerica, raramente tenendo conto delle peculiarità individuali e delle reali potenzialità degli studenti. Questo comporta una inutile e controproducente selezione già in partenza, che si traduce nelle cifre bassissime di presenza di studenti con DSA nei licei. La valutazione orientativa al ribasso, unita ad una scorretta applicazione degli elementi di valutazione degli apprendimenti e delle competenze - fin dalla scuola secondaria di primo grado - danno come risultato una sorta di sindrome da tragedia annunciata. Perché rischiare? Se a questo si aggiungono i suddetti RAV di quelle scuole che si pregiano di non dover “rallentare” la didattica a causa di studenti con DSA, il gioco è fatto: ci stiamo condannando ad avere scuole “adatte” ai DSA e scuole che ad essi sono precluse.
Quando una scuola pubblica (e includo anche le paritarie, in virtù dei criteri che le rendono tali) ritiene doverono sottolineare che la didattica è fluida e favorevole all'apprendimento perché il numero di certificazioni di DSA è ininfluente, quando ad un dislessico si sconsiglia l'iscrizione ad un liceo, o quando è il liceo stesso a scoraggiarne l'accesso, siamo di fronte ad una condotta che rappresenta un ostacolo verso il diritto allo studio. Oltre al diritto costituzionalmente sancito, la legge 170 dichiara in modo chiaro che al sistema nazionale di istruzione viene assegnato “il compito di individuare le forme didattiche e le modalità di valutazione più adeguate affinché alunni e studenti con DSA possano raggiungere il successo formativo”.
Andando oltre le parole di presentazione delle scuole, sempre nel RAV, si può scendere nel dettaglio rispetto ad ulteriori indici che ne determinano la capacità (e l'intenzione) inclusiva. Mi sono letta tanti RAV, scegliendo scuole a caso nelle varie regioni italiane, nelle diverse province, città grandi e piccoli centri, per verificare che anche dove non vi sia esplicitata una particolare allergia ai DSA, risultano spesso inesistenti, tra i dati relativi alla tipologia delle azioni attuate per l'inclusione, quelli che fanno riferimento alla formazione degli insegnanti, così come tra i progetti considerati prioritari, quelli relativi alla prevenzione del disagio e all'inclusione presentano un valore pari a 0.
Non è che avessimo necessità di questa bailamme mediatica per venire a conoscenza dell'ancor troppo limitata presenza di politiche inclusive efficaci in determinate scuole, in materia di DSA. L'esperienza comune a tanti genitori, purtroppo, è anche quella di dirigenti scolastici che disincentivano palesemente l'iscrizione nei loro istituti o casi in cui le famiglie vengono forzate ad attivare percorsi di supporto a casa, senza alcuna sensibilità rispetto alla capacità economica o culturale delle stesse famiglie. Casi, ancora, in cui la redazione del PDP è affidata al solo coordinatore di classe, senza alcuna condivisione del collegio docenti, come fosse poco più che una formalità accessoria che non merita attenzione particolare.
Mi salta agli occhi, leggendo questi rapporti di autovalutazione, un'assenza di pudore e di sensibilità pedagogica e sociale. Non importa se la realtà è quella, se i numeri alla fine dicono che nei licei gli studenti con DSA siano pochi (un rinomato liceo ha audacemente messo nero su bianco che i DSA sono in “leggero incremento”), e questo vale anche per gli aspetti legati alla presenza di stranieri o di situazioni di disagio socio-economico. Importa che si pensi di utilizzare questi dati come indice di prestigio, come elemento di attrattiva per la vendita del prodotto, al pari di una qualunque e studiata azione di marketing. Non risulta credibile metterci una pezza dopo, perché certe riflessioni vanno fatte prima. Se lo scrivi, significa che quel dato lo vivi esattamente in quel modo, ne fai uno strumento che va porta una determinata utenza ad auto-escludersi e a creare (e soddisfare) aspettative precise in coloro che, per contro, si riconoscono nell'utente-tipo.
Le numerose riforme scolastiche che si sono succedute negli ultimi anni ci hanno invasi di retorica innovatrice che si è tradotta in tagli ai finanziamenti e alla conversione verso una gestione manageriale che avrebbe dovuto portare efficienza ma che, forse, ci sta allontanando sempre più dal senso di scuola pubblica come luogo dove si promuove e difende il diritto alla parità di opportunità. Lo Stato cerca ora di correre ai ripari, ma queste informazioni sono raccolte con gli strumenti che esso stesso mette a disposizione, consentendone (almeno fino ad ora) questo utilizzo distorto. Indicatori che avrebbero dovuto favorire azioni di miglioramento e di crescita sono diventati elementi di discriminazione ed esclusione. Scuole che si autocelebrano presentando i loro ambienti puliti da disabili, poveri e stranieri.